mercoledì, marzo 12

teoria e pratica #6. il regno di mezzo.

l’abitudine è un soporifero; la familiarità non eccita più la nostra fantasia. non si dovrebbero assumere le conseguenze come cosa naturale e dovuta. certo, cambiamenti esterni di grande ampiezza di solito comportano adattamenti e modifiche negli atteggiamenti dell’uomo, perché se ci si sgomenta e ci si ribella, si dovrà pur seguire lo stesso la strada fissata.

il figlio del sole governava un impero, il più antico, il più coronato da successo e il più benefico tra tutte le istituzioni politiche allora in vita. la sua fondazione aveva dato a un mondo civile, un governo civile, la guida di una burocrazia scelta attraverso concorsi e dotata di alta cultura, in luogo di una internazionale anarchia nel cui ambito un certo numero di staterelli locali, dominati da una nobiltà feudale ereditaria, avevano tormentato il genere umano muovendosi, l’uno contro l’altro, perpetue guerre. una struttura politica che come uno scrigno aveva racchiuso e preservato un tesoro intellettuale, aveva applicato la scienza alla vita pratica.

le élites vivono nella presunzione di essere il centro del mondo. un’infermità esotica che oimé serve a strapparle da un guscio ancestrale, ma che non permette a tutti gli esseri umani di poter svolgere nella storia tutte le proprie possibilità, sorpassando i propri limiti. l’uomo non può vivere di sola tecnica. nell’età dell’aria il centro di gravità delle vicende umane è determinato dal pellegrinaggio, dal cemento sociale, dalla distribuzione degli esseri umani, vari di numero, di energia, di abilità, di talento e di carattere. . e il numero deve contare, a dispetto delle classi privilegiate, che continuano a godersi i beni dalla società creati, appollaiate coi loro vezzi decadenti sul dosso di una massa operaia, passiva e industre, che non vuole rimanere allo stato neolitico.


[alla illuminata mano di ajt]